Poteva succedere a me
- Written by Giulia Gaggia
- Published in Medicina, cure
Nelle scorse settimane molte sono state le donne, mamme, che hanno condiviso attraverso i propri social l’hashtag “potevo essere io quella mamma“ come strumento di vicinanza alla neo mamma di Roma che ha perso il suo bambino a poche ore dal parto. Un gruppo di mamme solidali che nello sfondo di una così simile tragedia hanno trovato il coraggio e la voce per raccontare e denunciare le loro esperienze di parto e soprattutto post partum all’interno degli ospedali e delle cliniche per la natalità.
Mi sono ritrovata anche io in molte di quelle parole, e ho ripensato a come è stato il mio parto e a quei quattro giorni in ospedale; ai racconti di altre mamme che ho conosciuto nei mesi della mia gravidanza e in quelli successivi. In quei momenti, soprattutto quando si tratta della prima gravidanza e parto, si è così vulnerabili, incoscienti di quanto stia accadendo e prive forse di quella presunzione che dovrebbe portarci a dire di “no!” in risposta a quanto succede.
La prima ricerca nazionale realizzata dalla Doxa per conto dell’Osservatorio sulla violenza ostetrica in Italia dice che il 21% delle mamme dichiara di aver subito un maltrattamento fisico o verbale durante il primo parto. La stessa ricerca afferma anche che una donna su tre si è sentita in qualche modo tagliata fuori da decisioni e scelte fondamentali che hanno riguardato la nascita[1].
Sono stata sottoposta tre volte alla manovra di Kristeller, che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha dichiarato come rischiosa per la mamma e per il bambino tanto da arrivare a sconsigliarla. Può infatti comportare la rottura delle costole, rischi di lesioni vaginali e perineali, rottura dell'utero, distacco della placenta, danni permanenti al neonato e alla madre, tanto che in alcuni Paesi, come Spagna e Gran Bretagna, è stato posto il divieto di eseguirla. In Italia, anche se alcune Regioni hanno legiferato al riguardo, non esiste il divieto a praticarla e, a differenza di quanto sostenuto dall'OMS nelle sue raccomandazioni, è spesso eseguita in modo soggettivo e non regolamentato; e ancor più grave l'esecuzione di questa manovra non viene quasi mai riportata nel certificato di assistenza al parto[2]. Io ricordo perfettamente la sensazione di quella manovra sul mio corpo (manovra che non mi è stata spiegata e per la quale nessuno ha chiesto la mia autorizzazione) che ho associato ad una tortura medievale.
E io sono stata ancora fortunata. Non ho subito un travaglio lungo ed estenuante che si è concluso con un taglio cesareo dopo più di un giorno in sala parto (anche qui vorrei sapere perché bisogna spingersi così tanto prima di decidere di praticare un cesareo) e non ho subito altro accanimento e violenza ostetrica come una episiotomia.
Mia figlia è nata alle 21.12 di sera e quando me l’hanno messa tra le braccia ero così esausta da non ricordarmi nemmeno l’emozione di quel momento, come se il mio cervello ed il mio corpo avessero detto “Ok, è finita. Spegniamoci!”. Nessuna delle infermiere del nido si è preoccupata del fatto che dopo tutte quelle ore la mia unica necessità fosse dormire e recuperare le forze. La mia bambina dormiva nella sua culla accanto al mio letto finché, a metà della notte, l’infermiera non la mise sdraiata accanto a me. Ecco, leggendo del fatto della mamma dell’ospedale Pertini di Roma ho pensato “Poteva accadere anche a me, potevo schiacciarla non accorgendomene”.
Nei giorni seguenti nessuno si è ritagliato cinque minuti del proprio tempo per insegnare a chi come me era diventata mamma per la prima volta come fare ad allattare. Alle difficoltà dei bebè intervenivano solo fornendo para capezzoli di silicone o tiralatte come se nessuno di quei seni fosse adatto a fare il proprio lavoro. Di notte l’infermiera di turno liquidava le neomamme trascorrendo il suo tempo a lamentarsi del calcolo delle ore e della maturazione delle sue ferie e recuperi. Per non parlare di quando le neomamme dovevano assentarsi per andare banalmente in bagno o a lavarsi: ebbene, sembrava calasse su di noi lo sguardo del “eh tu dove credi di andare?! Cerca di tornare in fretta”, come se ci stessero facendo un favore.
Tutto sommato sono stata fortunata, alcune infermiere sono state meglio di altre; eppure, il mio rientro a casa non è stato dei più facili se ripenso all’allattamento. Fino a che non ho chiamato a casa una consulente che in dieci minuti mi ha seguita, insegnandomi anche banalmente a come sedermi per allattare, a come prendere la testina della mia bambina per portarla al seno, a come accorgermi se c’erano piccoli problemi e a correggerli. Magicamente il mio seno si era rivelato perfetto e adatto, diversamente da come era stato giudicato in ospedale.
Io, però la spesa di questa consulenza me la sono potuta permettere. Senza, probabilmente, avrei dovuto rinunciare all’allattamento al seno. Ma chi invece per limitata conoscenza e accessibilità a questo tipo di servizi e/o mancanza di risorse non può accedervi quali possibilità ha davanti ha se?
Purtroppo, la nostra struttura ospedaliera non mette a disposizione delle neomamme queste figure e le ostetriche vengono soppiantate nel momento esatto in cui il bambino nasce, dimenticando che da secoli è l’ostetrica la figura di accompagnamento alla nascita e al post partum.
La cosa triste è che sono molte le donne che si sono sentite maltrattate da parole e commenti che, oltre ad essere fuori luogo, non tenevano nemmeno in considerazione il loro passato e la loro storia. In quel momento non si ha bisogno di essere giudicate, bensì solo di essere comprese ed aiutate anche nelle cose più piccole e apparentemente insignificanti.
Se ripenso a tutti questi fatti e a tutte queste situazioni vissute mi pento solo di non aver denunciato quanto accaduto. Di non essermi presa mezz’ora del mio tempo per scrivere o per chiedere un appuntamento al Direttore generale dell’ospedale, così da portare alla luce, attraverso la mia esperienza, quanto non funzioni, quanto è doveroso comprendere per migliorare.
Negli ultimi anni si cita spesso il detto africano “Per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio”. Lo si fa anche per sensibilizzare le famiglie e chi sta vicino alle neomamme a non essere timido nel dare aiuto. Si parla sempre più spesso di baby blues o depressione post partum. Eppure, nelle prime e delicate settimane dopo il parto, che sia il primo o addirittura il terzo, tante, troppe sono le mamme lasciate sole. Come se noi sapessimo, in quanto donne, esattamente cosa fare. Come se ci fossimo cacciate noi in quella situazione e noi dovessimo uscirne. Come se non stesse bene mostrare la fragilità che si attraversa in quei primi mesi. Forse dovremmo superare il preconcetto che la donna debba ricoprire sempre e comunque i ruoli che la società le impone anche quando sta attraversando un momento delicato, anche quando chiedere aiuto e dare aiuto non sono sinonimi di incapacità e misericordia. Io personalmente ho imparato tanto e tantissime cose dai cosiddetti cerchi delle mamme: luoghi in cui ci si sente capite, protette, aiutate, senza difetti e allo stesso tempo in diritto di poter sbagliare, con una grande energia che unisce, con la voglia di dare un consiglio, di confrontarsi, di “crescere” insieme in quei primi mesi fatti di dubbi, tentativi e sesto senso. Bello sarebbe se venissero “istituzionalizzati” come esperienze postume al parto, un po’ come viene consigliato il corso preparto.
È tempo di fare luce su questi aspetti, di accettarli, comprenderli e fare di tutto per migliorare l’approccio e la cornice che li ricomprende, che orami è chiaro essere difettosa. Purtroppo, come spesso accade affinché se ne parli deve succedere un triste fatto di cronaca.
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