L’essere umano è una persona? Intervista a don Michele Tomasi

Quanto di tragico è accaduto intorno alle traversie di Charles Gard e dei suoi genitori non dovrebbe essere scordato con il passare del tempo - come, di fatto, sta accadendo - ma dovrebbe piuttosto diventare lo spunto per farci riflettere ampiamente e in profondità, tali sono i temi che la vicenda ha posto sul piatto a livello spirituale, filosofico, teologico, etico, sociale, giuridico e politico.
Lo dobbiamo sicuramente a Charles, a Constance Yates, la mamma, e a Christpher Gard, il papà.


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Con una conversazione assieme a Don Michele Tomasi, Vicario episcopale per il clero della Diocesi Bolzano-Bressanone, iniziamo ad affrontare l’argomento. Qui la materia del nostro colloquio: la riflessione sul fatto che, oggi, si mette in opposizione l’essere essere umano con l’essere persona; un conflitto che, probabilmente, non dovrebbe neppure darsi.

Don Michele, come mai, a suo avviso, la modernità ci porta ad un conflitto così profondo.

Sta succedendo che, giustamente, tutte le persone, in modo approfondito o meno, si pongono di fronte a delle domande di senso, fondamentali; e questo è un bene.
Ci sono delle situazioni limite sulle quali non abbiamo una risposta definitiva perché forse quella risposta definitiva non c’è, ma di fronte alle quali tutti siamo chiamati a dire: “Ma io come vedo la mia vita?”; quindi, io che senso riesco a vedere nella vita?
Ci poniamo quindi tante domande sul significato e anche sul valore della vita, ma la vita non è un concetto astratto, la vita sono persone che vivono e, per tanto, arriviamo a chiederci qual è il valore della persona.
Questo è l’ambito all’interno del quale ci muoviamo, tutti noi, con le nostre paure: tutti abbiamo paura di morire e tutti abbiamo paura di soffrire.
Molti di noi non vogliono essere di peso ad altre persone, quindi c’è tanto di bene nella coscienza umana che si muove anche in questo contesto.
Allo stesso tempo, però, siamo tenuti a dare delle risposte che non siano immediatamente solo emotive e che siano davvero rispettose di quella dignità umana che tutti vogliono affermare, ma che spesso è definita in modo incoerente.
I punti chiave sono: “Questa vita è degna di essere vissuta?”, “Quando è degna di essere vissuta?”, e senza caricaturare nessuna posizione, perché non è questo il senso della riflessione, la mia ipotesi di fondo è che la vita, e particolarmente la vita umana di una persona umana dal momento in cui c’è, è degna di essere vissuta fin quando c’è naturalmente.
Le caratteristiche e le peculiarità che ha l’esistenza di ogni persona, sono fondamentali, ma sono tali perché con quella persona, poi, si entra in relazione e con quella persona si vive assieme; di quella persona, eventualmente, ci si prende cura esaltandone la dignità, si lascia che altre persone si prendano cura di noi, e, insieme, ci prendiamo cura del creato.
Questa è la mia prospettiva, non una vita che fa cose particolari, ma una persona che è.
Non una persona che non soffre, ma una persona che, anche nella sofferenza, può trovare intorno a sé persone che la leniscono che la curano che l’accompagnano e che le dimostrano il loro amore. Mi sembra una prospettiva che dà significato all’esistenza di tutti, che prova a non scappare di fronte al dolore, alla sofferenza, soprattutto di fronte al dolore e alla sofferenza innocenti, dei piccoli, dei bambini, di coloro che non hanno voce, delle persone che da sole non ce la fanno, di quelle persone che lasciano intravedere così tanta insopportabile sofferenza che alle volte umanamente viene da dire: “Qui dobbiamo interrompere”.
Tutto in un mondo nel quale abbiamo una proposta medica e scientifica eclatante sia per poter guarire, sia per allungare la durata della nostra vita che, fino a cinquanta anni, fa era impensabile. Un mondo, dunque, nel quale, anche grazie alla medicina e alla sua tecnologia, viene fatto tanto di bene, ma si pongono anche dei dilemmi morali che forse, anticamente, si ponevano in una maniera differente. Con la conseguenza che da un lato, ci dimentichiamo che la morte fa parte della vita e quindi che dobbiamo tenere conto di questo, non possiamo fare finta di essere immortali su questa terra perché non lo siamo, e, dall’altro, la tentazione di risolvere i problemi esistenziali drammaticissimi delle persone ponendo fine alla loro esistenza è forte più che mai.

Don Michele, come ci poniamo di fronte a coloro che davvero non sono in grado di sopportare dolori e sofferenze terribili e che, disperati, chiedono di essere aiutati a porre fine ad un calvario insostenibile?
La sofferenza in sé e per sé non è un valore, mai. È sempre un qualcosa da curare, se si può. La dove però c’è, può assumere un significato di relazione fra le persone, di amore, di cura; mi ripeterò, ma per me è centrale il concetto di cura, il prendersi cura e, di contro, il lasciarsi curare, lasciare che qualcuno si prenda cura di noi. Quello che mi sembra mancare, è una profonda comunione fra le persone; rispetto a tutto questo quello che di più è assente, è la relazione profonda che fonda una comunità di persone che non si lasciano sole nella problematica.
Quando siamo nella sofferenza noi sappiamo che è nostra e che non può essere “esportata” e che non può mai essere portata fino in fondo da qualcun altro, ma questo non significa che in quel momento noi dobbiamo essere soli, anzi è proprio in quel momento che abbiamo più bisogno di tante persone che ci stiano vicino, che ci accompagnino, che non ci abbandonino, che ci aiutino a lenire le sofferenze.
Poi è vero, ci sono alcune persone che, nonostante la presenza, l’aiuto, l’amore, la cura, non ce la fanno; io non mi permetterei mai di giudicare, perché ho paura anch’io della sofferenza. In questi casi, a mio avviso, servirebbe un ulteriore sforzo collettivo per aumentare le possibilità di aiuto e di accompagnamento, piuttosto che quelle di fine della vita.
È un investimento sociale che dovremmo fare: cure palliative, associazioni come Hospice, favorire il volontariato in questo senso, diffondere una cultura, e lo ribadisco, della “presa in cura” degli altri così come del proprio mondo, della propria cultura, dell’arte, della natura, del creato; quanto più ci prendiamo cura di tutto, tanto più creiamo un orizzonte di senso all’interno del quale anche queste domande sono poste.

La sua, don Michele, è una proposta in controtendenza: la presa in cura di ognuno di noi di altre persone, più persone che si prendono cura di una persona, starsi vicini, amarsi, aiutarsi a fronte di un modello culturale che si va ben delineando e la cui cifra è il singolo individuo, la sua autodeterminazione assieme ai concetti di utilità e di qualità della vita.
La scoperta dell’individuo è, mi pare, il percorso della modernità. Se vogliamo andare nel 1500, nella storia occidentale, si scopre la persona come individuo e ci sono molti aspetti positivi in questo soprattutto lì dove abbiamo sottolineato sempre di più, ed è un valore ormai imprescindibile, l’uguaglianza in dignità di tutte le persone.
Il problema è che se pensiamo l’individuo staccato da ogni relazione all’origine di tutto non cogliamo la realtà della nostra condizione: noi veniamo da una relazione, entriamo in una serie di relazioni che sono, ad esempio, la famiglia che ci accoglie venendo a questo mondo che porta con sé la lingua che parliamo, il contesto sociale nel quale siamo immersi, anche fisicamente siamo il combinato del codice genetico dei nostri genitori.
Noi siamo, prima di tutto, una relazione; quando usiamo una lingua noi assimiliamo ed usiamo quel codice di linguaggio, poi, se siamo bravi, da poeti o letterati, la cambiamo la facciamo progredire, modificare nel tempo e sono le persone che fanno questo.
Dunque, l’individuo come persona è un individuo in relazione, non pienamente determinato da questa relazione, e, infatti, può liberarsene, ma senza questa relazione, certamente non è.
Non siamo enti calati dal cielo e poi, solo se vogliamo, entriamo in relazione con gli altri; noi veniamo dalle relazioni dal cui interno siamo costituiti e come tali ci identifichiamo come soggetti, unici ed irripetibili.
Allora com’è la relazione tra le persone? Homo homini lupus, con tutto il rispetto per i lupi, perché spesso siamo molto peggio di loro, oppure siamo delle persone che si guardano negli occhi e trovano un appello in quello sguardo che dice, come prima cosa, non uccidermi? Richiamo qui la visione del filosofo di origine ebraica Emmanuel Lévinas.
Veniamo da e siamo nelle relazioni e queste possono essere facili, difficili, conflittuali, contrapposte, c’è sempre la possibilità del malinteso, ma anche poi la capacità di entrare in una speciale sintonia che è quella che chiamiamo, con una parola grande, amore.
Se l’opzione fondamentale è che siamo creati per l’amore e siamo chiamati a viverlo e quindi siamo chiamati alla felicità, l’amore è gioire assieme, ma anche soffrire assieme.
Questa prospettiva è, probabilmente, più plausibile per chi crede che questa natura sia creata da un Dio che è amore, piuttosto che per altre prospettive, ma questa, in ogni caso sia, parla direttamente al cuore delle persone.
Questo è il dato che desideriamo tutti indipendentemente dalla nostra fede o meno.
Chi pensa da cristiano dà un nome a questa relazione e dice: “Io sono immagine e somiglianza di Dio” che a sua volta è relazione. L’esperienza morale del cercare il bene per sé e per gli altri è un’esperienza di tutti, ma questa è già un’esperienza relazionale.
Noi tutti, invece, vorremmo essere da subito sovrani ed indipendenti, non è vero? Nessuno dovrebbe avere a che dire alcunché sulla nostra vita; ma, avere qualcuno che ha da dire una parola nella mia vita significa imparare l’affidamento, imparare la fiducia, imparare tante cose che da soli non riusciremmo ad afferrare.
Già solo per quel che riguarda il nostro sapere, è una minima parte quello dovuto alla nostra esperienza diretta, tutto il resto ci è stato detto, lo abbiamo letto o studiato, lo crediamo, ci affidiamo ad altri, dunque siamo questa rete di relazioni, siamo questa comunità.
A mio avviso, la modernità farà un ulteriore balzo in avanti quando riconsidererà la persona all’interno di questa rete di relazioni. Senza buttare niente delle conquiste, ma non rassegnandoci a considerarci delle isole che non comunicano pur stando una accanto all’altra; questa è una rappresentazione, secondo me, assai diffusa, ma non corrispondente al dato, alla realtà dei fatti.

Don Michele, molte persone e non solo i cosiddetti nati digitali, tendono a spostare questa rete di relazioni dal reale al virtuale diventando quest’ultimo, spesso, più potente del primo; dunque, da un lato l’individuo con la sua assoluta, reclamata “solitudine”, dall’altro si coltivano relazioni, ma spesso virtuali: individualismo e relazioni virtuali possono contribuire ad allontanarci dal comprenderci come persone e quindi a diluire il concetto stesso di essere umano come persona?
Non sono sicuro che ciò avvenga, posso pensare che l’attuale moderna visione delle cose potrebbe contribuire a rendere plausibile una confusione tra essere umano e persona visti in dicotomia nel momento in cui non è necessario un ancoraggio nella realtà fisica per provare delle emozioni. Il dilemma sul fatto che l’essere umano sia o no persona è la domanda su chi siamo e da dove riceviamo la nostra identità, credo che sia una domanda molto occidentale, molto nella modernità ancora una volta perché quello che noi vorremmo è essere noi gli artefici della nostra vita.
La cosa che ci dà fastidio più di tutte è che qualcuno mi venga a dire cosa devo fare, cosa devo essere, come devo essere e in questo ci coinvolge tutti. Se qualcuno mi da un ordine, io sono a disagio.
Non so come fosse nell’antichità, io ora proietto la mia esperienza e la situazione è questa.
Però, se io coerentemente decido di portare a fondo questa scelta, allora io devo determinare tutto di me, io devo costituirmi e qui c’è l’opzione di fondo: credo che non siamo autocostituiti, per lo meno dall’inizio, nessuno ci ha chiesto se volevamo esserci o no. Già dall’inizio subisco l’ingiustizia più grande: nessuno mi ha chiesto se io volevo esistere o no.
Provando a comprendere la sensibilità moderna, personalmente, sono grato di potermi vivere come un non necessario che è stato donato: non c’è scritto da nessuna parte che io debba esserci, guardo con stupore il fatto che ci sono e ringrazio, però tengo ben presente che io sono una persona che sta bene, una persona, tutto sommato, privilegiata nella sua vita. Posso immaginare alcuni che si trovano nel dolore, nella sofferenza, nel limite forte, che si chiedono ma perché questo dono è venuto così, chi me lo fa fare di accettarlo; vedo, però, anche in concrete esperienze, molte persone che noi diciamo limitate o deboli, che, invece, questa esistenza la accolgono come un vero dono e che lo restituiscono con un’eccedenza di senso che lascia stupiti ed ammirati.

Franco Boscolo

Last modified onMercoledì, 25 Ottobre 2017 14:36