L'eredità didattica di Don Milani

“LA SCUOLA CHE PERDE GIANNI NON È DEGNA DI ESSERE CHIAMATA SCUOLA”
Scuola di Barbiana – don Lorenzo Milani

lettera ad una professoressa

Presso la libreria Librarsi di Via Milano a Bolzano, con la collaborazione di Cedocs, il prof. Roberto Imperiale, presidente di GRIMeD (Gruppo ricerca Matematica e Difficoltà) ha aperto il ciclo di conferenze autunnali con la rilettura critica de “Lettera a una professoressa” scritta dai ragazzi di Barbiana, alunni di don Lorenzo Milani (dalla prefazione: “Questo libro non è scritto per gli insegnanti, ma per i genitori. È un invito a organizzarsi. A prima vista sembra scritto da un ragazzo solo. Invece gli autori siamo otto ragazzi della scuola di Barbiana. Altri nostri compagni che sono a lavorare ci hanno aiutato la domenica”).

Un pubblico interessato e un’atmosfera accogliente hanno consentito di approfondire i temi e di apprezzare l’attualità di un testo considerato fondamentale per chiunque si dedichi allo straordinario, impegnativo e deontologicamente arduo mestiere dell’insegnare.
I passi scelti e commentati dal prof. Roberto Imperiale, hanno messo in risalto le criticità dell’universo scuola e la modernità delle impetuose considerazioni dei ragazzi di don Lorenzo Milani che, se pur pubblicate nel 1967, paiono scritte oggi.


La prospettiva della serata si può cogliere in alcuni dei numerosi passi tratti ed analizzati da Lettera a una professoressa, vale a dire: “… Se ognuno di voi sapesse che ha da portare innanzi e ogni costo tutti i ragazzi e in tutte le materie, aguzzerebbe l’ingegno per farli funzionare. Io vi pagherei a cottimo. Un tanto per ragazzo che impara tutte le materie. O meglio multa per ogni ragazzo che non ne impara una. Allora l’occhio vi correrebbe sempre su Gianni. Cerchereste nel suo sguardo distratto l’intelligenza che Dio ci ha messa certo eguale agli altri. Lottereste per il bambino che ha più bisogno, trascurando il più fortunato, come si fa in tutte le famiglie. Vi svegliereste di notte col pensiero fisso su lui a cercare un modo di far scuola, tagliato su misura sua. Andreste a cercarlo a casa se non torna. Non vi dareste pace, perché la scuola che perde Gianni non è degna di essere chiamata scuola.”(Lettera a una professoressa, pag. 82 – Ed: Libreria Editrice Fiorentina – 10,00 Euro). Un passo che pone l’accento, quindi, su quello che dovrebbe essere un “tassativo” della scuola dell’obbligo: la necessità di essere inclusiva, giammai esclusiva.


Con il prof. Roberto Imperiale abbiamo l'occasione di approfondire il significato profondo dell’eredità sia didattico-pedagogica sia sociale dell’opera di don Lorenzo Milani, sacerdote scomodo e assoluto, ruvido e amorevole; eredità che trova uno dei suoi capisaldi, come già anticipato, in un’opera essenziale per ogni insegnante, pur essendo stato scritto per i genitori, qual è “Lettera a una professoressa” (vanno ricordati di don Milani: “Esperienze pastorali” e “L’obbedienza non è più una virtù”).
Riportiamo un pezzo scritto da Imperiale in tempi non sospetti: risale al 1997, redatto in occasione dei trenta anni dalla morte di don Milani, uscito, poi, sul mensile “Piazza Vittorio” di Carosino in provincia di Taranto. Pare appena stilato e, quasi su questa stessa falsa riga, in molti si stanno cimentando su don Milani nel cinquantesimo dalla morte.


“Don Milani morì il 26 giugno 1967, qualche mese dopo mio nonno, che era stato il mio primo maestro. A quel tempo non conoscevo questo prete se non per le scarse notizie che arrivavano, ovattate, rivedute e corrette, nella provincia sonnolenta, più occupata a smaltire l’euforia dell’ormai lontano boom economico che non a proiettarsi verso il suo futuro: il benessere l’aveva sfiorata, lasciando molti desideri inappagati e molte povertà in agguato; ed aveva anche cominciato a distruggere le memorie. Ai più mancava la voglia di assaltare il cielo, di giocarsi la vita su un’idea, anzi di avere un’idea; cominciava, invece, a prevalere l’individualismo egoista sopra la condivisione solidale: covava il virus del mercato, della globalizzazione e, appunto, delle drammatiche povertà di oggi.

don MilaniMa quando coincise il tempo della partenza dalla terra “impareggiabile” con la scoperta di altri maestri, allora conoscemmo a fondo il priore di Barbiana. Fummo conquistati dalla sua vita: fosse stato per la sua nascita, sarebbe stato, come i suoi antenati, un docente universitario, uno scienziato; invece, semplice prete, rimase folgorato dal Vangelo e da ciò che il Vangelo stesso “imponeva”: la coerenza assoluta nella pratica della verità. Questo fece di don Milani un conseguente definitivo, inflessibile, quale che fosse il ruolo: prete, uomo, educatore, rivoluzionario; e quindi prete, educatore, rivoluzionario umanissimo, pronto alla dolcezza quanto alla durezza, ma con i suoi ragazzi piuttosto alla dolcezza estrema.

Aveva scelto di stare con i poveri, come il suo Grande Maestro e come tutti i trasognati dalle Beatitudini. Con un brivido, infatti, o col soffio dell’infinito scrisse nel suo testamento: “Cari ragazzi, ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto”. Fu, dunque, uomo di parte e come tale, fu punito dai suoi superiori. Cominciò appena sacerdote, mettendo in piedi una scuola popolare, nel popoloso borgo operaio di San Donato di Calenzano; dal resoconto di quei giorni sarebbe nato, nel ‘58, “Esperienze pastorali” prima pubblicato e poi giudicato inopportuno dall’autorità ecclesiastica e, quindi, messo all’indice. Nel ‘58, però, era già priore di Barbiana, nel Mugello, dove l’avevano esiliato per punire la sua scelta estrema e definitiva. Aveva già “la sua scuola”, dove i ragazzi studiavano tutti i giorni dell’anno, imparavano la lingua, che li avrebbe “resi uguali” e dove egli dava libero sfogo alla sua mente che, come nel caso di Gramsci e di tanti altri, avevano inutilmente tentato di far tacere, impedendole di pensare.

Barbiana non fu solo luogo delle anime affratellate; da lì venne “Lettera a una professoressa”, uno dei miei infiniti “libri/maestro”, dove, a lettere di fuoco, c’è scritto: “Cara signora, lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti. Io invece ho ripensato spesso a lei, ai suoi colleghi, a quell’istituzione che chiamate scuola, ai ragazzi che “respingete”. Ci respingete [...] e ci dimenticate. E ancora: “a Barbiana tutti i ragazzi andavano a scuola dal prete. Dalla mattina presto fino a buio, estate e inverno. Nessuno era “negato per gli studi”. [...] chi era senza basi, lento o svogliato, si sentiva il preferito. Veniva accolto come voi accogliete il primo della classe. Sembrava che la scuola fosse tutta solo per lui. Finché non aveva capito, gli altri non andavano avanti”. Questa “semplice” pedagogia deriva da un rivoluzionario atto d’amore. E se fosse accettata, implicherebbe una prassi pedagogico-didattica capovolta rispetto a quella della nostra ancora assai vecchia scuola; o a quella prevista dalle ipotesi di riforma che temo farà della scuola un’azienda, governata dalle regole del mercato e finalizzata alla discriminazione sociale.

Su ciò bisognerebbe aprire al più presto un tavolo di confronto e di informazione, per non dover sempre constatare che tutto cambia perché niente cambi: questa richiesta già veniva dalla rivoluzionaria lezione dei ragazzi di don Milani, riabilitati - per così dire - dal loro priore dopo essere stati respinti nei campi e nelle fabbriche, perché si doveva lasciare “ai figli di papà tutti i posti di responsabilità nei partiti e tutti i seggi in Parlamento”. Sapendo che “lottare senza istruzione vuol dire essere sempre umiliati e battuti” (G. Di Vittorio), Barbiana indicò che il riscatto passa (anche) attraverso una scuola che faccia “gratuitamente” il suo mestiere: cioè, che non valuti, né valuti per discriminare; che non sanzioni al negativo le differenze, ma che della valorizzazione delle differenze stesse faccia cifra di comportamenti politici finalizzati all’eliminazione della povertà, che è lo scandalo vero, l’unica differenza che non vorremmo; e indicando nell’azione comune la condizione ideale del cambiamento. Scriveva uno di quei ragazzi: [...] “il problema degli altri è uguale al mio”. E “sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”.

Questa scuola mi piacerebbe avere, non azienda ma risorsa di un paese effettivamente democratico, capace di accogliere e promuovere progetti di vita, non clienti o prodotti e se, come dicevano i ragazzi di Barbiana, andare a scuola è “un privilegio”, non “un sacrificio”, la sua cifra dovrebbe essere, ripeto, la gratuita e continua negoziazione dei saperi; cioè, reso il privilegio alle relazioni affettive, il lavorare quotidianamente con le corrette modalità affinché, ciascuno con la sua irripetibile identità, fosse piacevolmente motivato ad imparare ciò che è giusto sapere, cioè, tutto. In tal modo, consentendo ad ogni ragazzo il trovar autonomamente la sua strada verso la cittadinanza, si legittimerebbero le differenze in un quadro di sostanziale uguaglianza: dalla scuola si uscirebbe avendo ricevuto il giusto, che non è il dare a tutti la stessa cosa, ma dare di più a chi ha di meno, cioè, sapersi fermare ed aspettare i più lenti, i più svogliati, quelli che vogliono il tempo per pensare...

Sento già i cori dei liberisti ed anche del ministro, di chi vorrebbe che alcuni ragazzi studiassero lettere ed altri giardinaggio, inasprendo, così, la divisione di classe con la miserabile scusa che ognuno deve fare ciò per cui è portato. Sento già tanti insegnanti, prèsidi, genitori, economisti, commercianti dire che questa (di don Milani, la mia, di altri che si indignano ancora per l’innocenza violata), non è democrazia, perché non rispetta chi è più veloce: ma io, che per le mie attonite lentezze sarei stato un “disperso” se non m’avessero spinto a studiare le burbere dolcezze di mio padre e la silenziosa condivisione di mia madre, i cui nomi sono fiero d’aver portato “più in là dell’odio e dell’invidia”, so che non esistono i più veloci o i più lenti, i “negati” per la scuola ed i “portati” per essa, ma i ricchi ed i poveri; e son pronto a scommettere che gran parte della nostra scuola non faccia nessuna fatica a scovare “i portati” tra i ricchi ed i “negati” tra i poveri, mettendo al bando le fantasie, come tentò di fare con le mie, e bocciando ancora, per favorire la convergenza verso modelli di mondo che non mi piacciono, che non piacevano a don Lorenzo Milani.

Io so che, invece, esistono i tempi del cuore di ciascuno, dei sogni di ciascuno, delle poesie di ciascuno, delle tenerezze di ciascuno, dei dolori di ciascuno, del conoscere di ciascuno, dell’amare di ciascuno, del progettare assalti al cielo di ciascuno. So che questi tempi formano l’unico tempo della grande catena delle creature, nella quale si sfiora una stella quando si raccoglie un fiore e una carezza data ad un bimbo è data a tutti i bambini del mondo ed è tempo donato a ciascuno come eredità al figlio, col suo pezzo di cielo; so che questo tempo ce lo vogliono togliere, per accaparrarsi tutto il cielo; so che dovremo ancora lottare per tenercelo, stretto, e liberato dal bisogno, con la stessa caparbia tenacia del prete che fu sepolto con i suoi scarponi di montagna. Ma quando ciò fosse e si fosse definitivamente liberi, forse proprio per onorare un misterioso comandamento di Dio, noi vorremmo più bene all’uomo che a Dio; soprattutto quando quell’uomo fosse un piccolo d’uomo, una minuscola dolcissima voce”.

Seguendo il pensiero del prof. Imperiale, parrebbe che ben poco sia cambiato dal 1967 ad oggi nei fondamentali dell’approccio didattico e pedagogico nella scuola italiana e che ogni esercizio di trasformazione abbia sortito confusione e malcontenti d’ogni genere, penalizzando così il futuro del Paese.

Franco Boscolo

Prossimi appuntamenti presso la libreria Librarsi in Via Milano 105/a

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8.10.2017 – “La città interiore” 

Last modified onMercoledì, 25 Ottobre 2017 14:28